Hanno Detto
Thuram: «Inter? Amiamo il calcio, l’obiettivo è vincere altri trofei»
Marcus Thuram ha parlato del clima trovato all’interno dello spogliatoio dell’Inter e degli obiettivi futuri nerazzurri
Marcus Thuram ha parlato a GQ Hype speciale Change is Good – l’iniziativa globale della nota rivista mensile dedicata al cambiamento, che esplora e promuove valori come la diversità, parità di genere, sostenibilità e attenzione alla salute mentale – dell’ambiente trovato nell’Inter.
GRUPPO INTER – «La cosa più importante è amare il calcio. Quando ami giocare, ami anche tutta la fatica, gli aspetti meno divertenti di questo sport, ti sforzi sia per te che per il compagno. In questa Inter non c’è nessuno che non ami il calcio, siamo un gruppo di venticinque persone, alle quali devi aggiungere lo staff, che è felice di passare il tempo insieme e di lavorare uno per l’altro.
Un gruppo non è un giocatore più un giocatore, è una squadra. Non mi vedo da fuori, ma penso che sia questo che si percepisce anche da spettatore. Questo gruppo non è nato l’anno scorso. Esiste da tre anni. L’anno scorso ha perso una finale di Champions che avrebbe potuto vincere, hanno vinto trofei e abbiamo intenzione di continuare a farlo. Certo, è facile aprire gli occhi ora, perché sta andando tutto molto bene, ma è un percorso che dura da anni».
SERIE A – «La Serie A è un campionato che mi ha stupito in positivo. Ovviamente lo conoscevo già, ma la preparazione tattica degli avversari è qualcosa di altissimo livello. Ogni squadra, dalla prima all’ultima, entra in campo con un’idea di gioco ben preciso, la conoscenza di ogni calciatore è molto alta».
RAZZISMO – «È normale che le persone chiedano a Marcus Thuram di essere un simbolo per la lotta contro il razzismo, perché ho una voce che può essere più ascoltata di altre. Ne sono cosciente e il tema mi sta molto a cuore. Non credo però che sia un singolo a poter cambiare le cose, è ovviamente un processo collettivo.
Anche perché si tratta solo di capire che siamo umani. In molti lo vedono anche come un problema circoscritto. Io non credo che sia un problema italiano: esiste in Francia, esiste in Spagna, come negli Stati Uniti purtroppo. È un tema universale e quindi credo che sia un processo di cambiamento da abbracciare e attuare tutti insieme, facendo ognuno la sua parte»