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Astutillo Malgioglio: «Grazie Mattarella ma io devo tutto ai bambini disabili e alle loro famiglie»
Astutillo Malgioglio ha parlato a La Gazzetta dello Sport del premio ricevuto da Mattarella e del suo impegno civile
Astutillo Malgioglio ha parlato a La Gazzetta dello Sport del suo impegno quotidiano con i bambini disabili, che gli è valso l’onorificenza di Ordine al Merito da Mattarella. Queste le sue parole.
ONORIFICENZA – «L’ho saputo due giorni fa. Ho già ricevuto talmente tanto dalla mia vita, che non penso di meritare anche questo. Non so se sono degno di ricevere questa onorificenza, voglio condividerla con le famiglie di quegli angeli che mi hanno dato la possibilità di fare la cosa più bella del mondo: aiutare il prossimo. E ogni volta che ci riesco, mi sento l’uomo più fortunato della terra. Quando ho ricevuto la notizia ero con i genitori di un bambino disabile, si sono commossi e questo per me è il senso di tutto».
INIZI – «Avevo 19 anni ed ero titolare del Brescia in Serie B quando, grazie ad un amico, visitai per la prima volta un centro per disabili. Mi impressionò la loro emarginazione, l’abbandono. Fu un’emozione fortissima, un pugno nello stomaco. I miei genitori si sono sempre impegnati nel sociale, mi avevano già ‘insegnato’ il rispetto e la solidarietà verso gli altri, ma quel giorno tutto mi apparve chiaro. La vita non poteva essere solo una palla di cuoio che rotola. Mi sono messo a studiare e mi sono specializzato nei problemi motori dei bambini. Poi col primo ingaggio ho aperto una palestra ERA 77 dalle iniziali del nome di mia figlia Elena nata nel 1977, mia moglie Raffaella e del mio. Lì offrivamo terapie gratuite ai bambini disabili. Li aiutavamo a camminare, a muoversi da soli».
MONDO DEL CALCIO – «Nel calcio sono sempre stato un sopportato. È un mondo che gira solo intorno a se stesso e ai suoi piccoli drammi della domenica; ogni voce fuori dal coro è un pericolo. In tutta la carriera non ho mai saltato un allenamento. Ero uno di quelli che si definiscono ‘professionisti esemplari’. Eppure, spesso, non bastava. Qualsiasi altro interesse diverso dal pallone viene visto come una pericolosa distrazione, anche quando aiuti dei ragazzi disabili. Avevo sempre gli occhi di tutti puntati addosso. Dovevo rendere al 110% per non sentire le chiacchiere odiose di chi davanti a un errore in campo magari commentava ‘Quello pensa agli handicappati invece che a parare…’. Per anni ho fatto la spola tra il campo d’allenamento e la mia palestra a Piacenza: nessuno stress, nessuna distrazione, solo la sensazione di essere un uomo migliore».
ROMA – «Furono due stagioni splendide. La società mi è sempre venuta incontro: portavo i bambini disabili a Trigoria per la rieducazione, usavo la palestra della squadra dopo l’allenamento. Il calciatore Malgioglio aveva il piacere di giocare con Falcao e Cerezo, l’uomo Astutillo aveva l’onore di aiutare i bambini».
LAZIO – «Mi sono sempre chiesto il perché di tanta ostilità; non ho mai preteso applausi, solo un po’ di rispetto. Il gesto della maglia lanciata, calpestate e sputata? Mi fa male tornare su questo episodio. Non rifarei quel gesto. Solo io e la mia famiglia sappiamo la sofferenza provata. Quello che mi ferì di più, non furono le cattiverie nei miei confronti ma la mancanza di rispetto, di solidarietà, di umanità per quei bambini sfortunati che non c’entravano niente. Il giorno dopo a Piacenza rividi i genitori di quei bimbi. Incrociando i loro occhi, non sapevo cosa dire. Molti di quei bambini non sono riusciti a diventare adulti».
INTER – «Firmai in bianco e restai all’Inter cinque anni, vincendo uno scudetto in nerazzurro. Con gli ingaggi rinnovai la palestra con attrezzature all’avanguardia. Venivano da tutta Italia per fare rieducazione nel mio centro. Quando andò via il Trap dall’Inter, si chiuse anche il mio percorso».
FINE CENTRO – «La struttura costava molto e io non me la sentivo di far pagare i pazienti. Non ho mai chiesto nulla a nessuno, né compagni, né società. Avevo tanti macchinari, li ho donati tutti. Purtroppo la palestra ho dovuto chiuderla nel 2000».
NUOVO INIZIO – «Abbiamo deciso di intraprendere una strada diversa: seguire i casi più gravi a domicilio. E questo mi ha aperto un mondo umanamente ancora più intenso e appagante: perché siamo entrati a far parte di queste famiglie, abbiamo condiviso sofferenza, dolore, ma anche sorrisi, miglioramenti e risultati, riuscendo a capire meglio e a vivere sulla pelle la loro situazione e la disabilità. Il rimpianto per la chiusura della palestra è stato sostituito da questo infinito bagaglio umano che ha riempito definitivamente la nostra vita».
DIMENTICATO DAL CALCIO – «Non ho mai cercato incarichi, a volte sarebbe bastata una telefonata, un ricordo, una carezza: io vivo di queste cose. Poi mi sono pentito di aver provato anche amarezza. La mia strada era un’altra e mi ha permesso di entrare ancora più a contatto con chi ha bisogno. Mi sono rinnovato anche nello spirito. Non rimpiango nulla e mi sento un uomo enormemente fortunato».